Supplemento a
RECENTI PROGRESSI IN MEDICINA
volume 111 | numero 8 | settembre 2020
Covid-19, fotografare la cura
Tra il 20 e il 26 aprile Claudio Colotti è entrato nel reparto covid-19 dell’ospedale Torrette di Ancona. Un racconto fotografico di empatia, ascolto e dialogo come cura.


Innanzitutto, prima di riflettere sulle immagini, vanno fatte alcune considerazioni di contesto per avere ben chiara la situazione in cui questo lavoro è stato realizzato e che cosa rappresenta.
Durante la pandemia covid-19 gli ospedali sono stati un territorio off-limits per tutti, anche per i familiari dei degenti. Uno degli aspetti più drammatici è stata proprio l’impossibilità da parte dei malati di avere contatti con il mondo esterno: milioni di persone nel mondo hanno sofferto e centinaia di migliaia sono morte in solitudine, senza poter avere accanto il coniuge, i figli, i nipoti; l’ultimo sguardo scambiato attraverso una vetrata o sul monitor di un telefono. Tutto il personale medico, paramedico e socio-assistenziale impegnato negli ospedali si è improvvisamente trovato a essere l’unica presenza umana a testimoniare e dare un senso agli ultimi istanti di vita di persone sole. Senza il lavoro di professionisti come Claudio Colotti, che hanno rischiato in prima persona per documentare i fatti, non vedremmo mai ciò che è successo dentro gli ospedali durante la pandemia. Dobbiamo quindi riflettere sul valore storico che lavori come questo assumeranno per i posteri e sulla grande responsabilità che il fotografo si è assunto nel decidere che cosa e come fotografare bilanciando la necessità di informazione e il rispetto per la persona, evitando la retorica, impedendo che l’emozione o la paura condizionassero la informatività di un lavoro che non poteva in alcun modo essere ripetuto.
Come nella fotografia di guerra, per realizzare una documentazione come questa sono necessarie grande esperienza, coraggio e determinazione. Appare chiaro guadando le sue fotografie che Claudio Colotti su questo ha avuto le idee chiarissime e ha fatto scelte precise. A cominciare da quella di usare il bianco e nero. Non una scelta estetica o stilistica, ma di grammatica visiva che focalizza l’attenzione sulle forme e accentua un elemento sostanziale di questo lavoro: la atemporalità e il senso di assolutezza che ne discende. Tutte le immagini sono realizzate all’interno di ambienti illuminati da una luce diffusa e incolore che rende impossibile capire se è mattina o pomeriggio, giorno o notte. Non si vede mai un orologio, un calendario o qualche altro elemento che possa suggerire una collocazione temporale. Queste fotografie potrebbero essere state realizzate nell’arco di un mese o nella stessa giornata o, per assurdo, nello stesso istante, fuori da una cronologia con un “prima” e un “dopo”. Siamo in un momento continuo, senza sosta, che ci fa calare visivamente nella realtà – di cui abbiamo sentito raccontare a parole – dello strenuo lavoro degli operatori sanitari.
INK #2 – 2020 | Covid-19, fotografare la cura COVID-19 – CURE OF TENDERNESS
Un altro elemento importante del lavoro di Claudio Colotti è il movimento, inteso non in senso fisico ma narrativo. Per convenzione semplificatoria le fotografie sono considerate immagini statiche che congelano un attimo, in contrapposizione al video che invece è una riproduzione del movimento. Talvolta in fotografia si cerca di rappresentarlo con l’effetto “mosso”, per ricordare che durante lo scatto fotografico era in atto una sequenza di moto che viene registrata sulla immagine statica come una strisciata poco definita. Nelle sue fotografie Claudio Colotti non cerca gli effetti, ma al contrario ci offre immagini realiste, nitide, informative, dettagliate, riuscendo a creare – grazie alla padronanza del mezzo e della sua grammatica – sia storie e relazioni tra i personaggi all’interno di ciascuna fotografia, sia una evoluzione ritmica tra una fotografia e l’altra.
In una immagine vediamo due sanitari, con il volto e il corpo nascosti dalle protezioni, in piedi di fronte a una paziente seduta sul letto di spalle. Sulla sua schiena si vedono i segni di una lotta con la malattia: l’impronta di un cavo o forse di un tubo, e una medicazione. Chi sono queste due persone che ascoltano e parlano con la malata? Forse sono medici, forse fisioterapisti o infermieri… non ha importanza: ciò che appare evidente è che queste due persone stanno cercando di capire i bisogni di una persona che soffre. Per comprenderlo non sono necessarie didascalie: ce lo dicono chiaramente i loro sguardi attenti e le loro posture premurose che guidano il nostro occhio verso il volto della paziente che, poiché ci volge le spalle, non possiamo vedere. Assistiamo a un dialogo senza parole e senza volti, ma dal significato chiarissimo. Mentre il nostro sguardo si sposta verso destra, iniziando a cercare l’immagine successiva, ecco che ci appare un altro volto mascherato che guarda attentamente la scena attraverso una finestra rettangolare, proprio come stiamo facendo noi ora guardando dentro il riquadro della fotografia. È un’altra persona a cui sta a cuore la salute della paziente sul letto, i suoi occhiali si allineano con quelli della persona che sta parlando con la malata e il suo sguardo ci fa ritornare indietro, verso la sinistra dell’immagine, trattenendoci ancora sulla storia che abbiamo davanti, muta ma eloquente, piena di informazioni e carica di significati.
Siamo in un momento continuo, senza sosta, che ci fa calare visivamente nella realtà – di cui abbiamo sentito raccontare a parole – dello strenuo lavoro degli operatori sanitari.
Ancora ritmo e movimento in un’altra immagine, che potremmo chiamare “di transizione”, nella quale vediamo una persona sola, forse un’infermiera, in piedi, assorta nell’atto di cambiarsi la divisa. Non riusciamo a capire con esattezza dove sta guardando, quindi il suo non-sguardo ci tiene in stallo nel centro dell’immagine. Un movimento aggraziato, circolare, gira all’interno di questa scena di vestizione (o svestizione?), di compostezza e raccoglimento prima (o dopo?) quello che sta succedendo al di là del muro sullo sfondo, che separa questa stanza da quelle in cui sono ambientate le altre fotografie e che quindi è anche lo spazio che separa questa fotografia dalle successive, nelle quali prosegue il racconto di giorni e notti dell’ospedale di Ancona. Anche in questa immagine Claudio Colotti non usa alcuna retorica, alcuna enfasi. La stanza è spoglia, illuminata dalla solita luce bianca senza tempo, la prosaicità di una scritta attaccata con il nastro su un contenitore di camici usati ci tiene con i piedi per terra: non siamo in un film, ma in uno dei tanti ospedali covid, in un periodo di paura che ricorderemo a lungo. Questa non è una storia di eroismo, ma di sofferenza e cura, di fatica e speranza.
Il movimento di queste fotografie è dunque nei gesti e negli sguardi. Lo vediamo ancora più chiaramente nelle scene in cui compaiono le mani, un elemento che ricorre in molte immagini di questo lavoro. Mani che si cercano e si toccano nello spazio senza orari della corsia. Mani che si stringono, fortificate da un sorriso di speranza, mani esangui e smagrite con i segni di una lotta durissima e forse giunta a un drammatico epilogo, mani guidate da altre mani che cercano l’appiglio per afferrare un deambulatore e ricominciare a camminare fuori dalla malattia e da queste stanze, mani esperte che preparano i farmaci senza esitazione.
Sebbene queste siano fotografie pensate, selezionate e tecnicamente curate nei minimi dettagli, il Claudio Colotti artefice tecnico lavora in sottofondo con discrezione, bilanciando i chiaroscuri senza alterare o spettacolarizzare con effetti speciali – come consentirebbe ampiamente il supporto digitale – la natura documentativa della fotografia. Il suo misurato intervento tecnico non si vede ma si sente, sottolineando il clima e le atmosfere, aiutandoci a comprendere che cosa ci sta raccontando ciascuna immagine.
Talvolta le grandi fotografie, proiettandoci in una emozione che va oltre qualsiasi spiegazione razionale, riescono a sintetizzare innumerevoli domande e un numero ancora maggiore di possibili risposte. Una in particolare delle immagini di Claudio Colotti riassume e rende superflue le possibili considerazioni stilistiche e tecniche, richiamando alla memoria una celeberrima e iconica fotografia in bianco e nero scattata durante la seconda guerra mondiale a Iwo Jima dal fotografo americano Joe Rosenthal. In essa, sei soldati in divisa sulla sinistra dell’inquadratura, sorreggendosi e sospingendosi a vicenda, alzano con un movimento collettivo verso il cielo la bandiera americana sulla sommità di una collina, in un gesto di patriottismo e conquista. Analogamente, in una delle fotografie di Claudio Colotti, vediamo sulla sinistra dell’immagine due persone: indossano anche loro una divisa, la divisa di chi combatte la malattia, che abbiamo imparato a conoscere durante la pandemia. Entrambe si protendono in avanti toccandosi.
In questa fotografia possiamo vedere simboleggiata la “cura” che Claudio Colotti ha voluto fotografare: quella della professionalità senza distacco, dell’empatia, della determinazione e del coraggio, della dolcezza di sguardi e gesti, accanto ai quali i farmaci, le attrezzature e i dispositivi, seppur utili, appaiono come strumenti accessori.
Tutte le fotografie sono accurate, nessuna è la verità, ci ricorda il grande fotografo Richard Avedon. Ma esiste forse una Verità in ciò che abbiamo vissuto in questi mesi? Abbiamo sentito innumerevoli interpretazioni e teorie sui fatti, ci siamo confrontati con la commozione, la paura, la retorica, la rabbia… Persone con grandi responsabilità collettive hanno compiuto scelte insensate pur di articolare una risposta alla richiesta di Verità.
Una verità sta sicuramente nella difficoltà dell’essere umano davanti all’incertezza che questa volta siamo stati costretti tutti ad affrontare. Alla medicina siamo abituati a chiedere soluzioni rapide, efficaci e possibilmente anche poco costose. L’incertezza è scomoda, difficile da comunicare e da spiegare, viene considerata spesso come una debolezza, un difetto da nascondere, ed è tollerata solo quando riguarda questioni di dettaglio. In questa occasione abbiamo dovuto affrontare una grande incertezza non solo relativamente ad aspetti tecnici, ma in senso esistenziale, nella sostanza di ogni giorno in cui non sapevamo se e come saremmo arrivati a sera. La composizione delle fotografie di Claudio Colotti, la sua scelta di come essere accurato in senso avedoniano, ci suggerisce che la tecnologia, i farmaci, i dispositivi, sono solo una parte accessoria della cura che in questa situazione ha rivelato tutti i propri limiti, e che invece sono centrali i pensieri e i gesti, le persone e la loro capacità di affrontare una drammatica incertezza alla quale – a epidemia ormai in fase di risoluzione – non siamo ancora riusciti a dare risposte.
In altre parole, la cura sono le persone e la loro capacità di instaurare un rapporto con l’altro.
Non è una novità, l’avevamo già letto in tante pagine piene di parole, che però non possono essere chiare e potenti come questi pochi centimetri quadrati di immagini in bianco e nero.
È questo il potere esclusivo della fotografia.
Francesco Nonino
OSPEDALE REGIONALE TORRETTE
PERIODO: 21.04.2020 / 24.04.2020

Sasha Pacini, Annamaria Bellassai, Gessica Posanzini e il resto del personale medico stanno per completare il processo di vestizione prima di accedere al reparto covid. È un’operazione complessa che richiede quasi 15 minuti. Nei passaggi più delicati la eseguono a coppie per avere la certezza che mascherina, occhiali e scafandro siano perfettamente aderenti a naso, bocca, occhi e orecchie. “La prima volta che sono entrata nel reparto covid ho avvertito un senso di smarrimento, avevo paura e non conoscevo nessuno. Soltanto grazie al sostegno di colleghe e colleghi sono riuscita a tranquillizzarmi e a entrare gradualmente in confidenza con i dispositivi di protezione individuali. Nella fase di vestizione preparaci insieme, prenderci cura l’uno dell’altra, ci aiuta a conoscerci meglio. Così una volta dentro il reparto la sintonia e l’empatia trovano un terreno fertile”.

Per escludere ogni ipotesi di contagio all’esterno del reparto covid gli operatori sanitari evitano di introdurre qualsiasi tipo di oggetto compresi fogli e penne. Per questo come unico promemoria ciascuno fissa con del nastro adesivo sulla propria tuta di protezione un foglietto con su scritti i nomi dei pazienti che dovrà trattare.
Ingresso in area covid: con addosso i sistemi di protezione integrali diventa impossibile anche per gli stessi sanitari riconoscersi tra loro nonostante lavorino spalla a spalla da mesi. Qualcuno, oltre a scrivere sulla tuta nome e mansione, per riaffermare la propria unicità e identità affettiva arriva a riportare vere e proprie dichiarazioni d’amore indirizzate a pazienti e colleghi. “Non è facile familiarizzare con le protezioni integrali, anche i gesti più semplici come camminare e gestire la propria spazialità risultano difficili e macchinosi. Abituarsi agli occhiali che si appannano, al dolore delle mascherine così come alla disidratazione provocata dall’impossibilità di bere è stato stressante. Di sicuro è il sostegno tra colleghi unito all’affetto dei pazienti ad averci aiutati a resistere nei momenti di picco”.


La dottoressa sfiora con una carezza il braccio di un paziente che mostra segni d’insofferenza per via dei tanti giorni trascorsi all’interno del casco respiratorio. Un prezioso gesto d’affetto che è parte integrante della cura in un momento in cui fuori dalle mura ospedaliere vige il necessario distanziamento sociale. “Ho visto pazienti piangere mentre venivano dimessi, ci ringraziavano, come se dopo quel percorso di dolore stessero per recidere un filo emozionale che ci legava a loro. È vero non ci hanno mai visto in volto, ma penso che il tocco di una mano e la dolcezza di una parola compensino ogni cosa”.
La fisioterapista Elisa Goffi, 25 anni, sorregge un anziano affetto da coronavirus. Per restituire un senso di normalità affettiva al paziente, accanto alle classiche manovre di riabilitazione, l’operatrice innesca un dialogo svincolato dalla mera malattia. “Passando dai muscoli e le articolazioni con le nostre mani e le nostre voci dobbiamo arrivare a coinvolgere anche la parte più ed emotiva di questi malati”.


Un’infermiera comunica a una paziente covid che gli esami del tampone lasciano finalmente presagire la sua completa guarigione e che presto potrà rivedere suo figlio. Impossibilitate a esprimere le proprie emozioni attraverso il sorriso e gli occhi, dottoresse e infermiere hanno imparato a comunicare emotivamente attraverso i gesti o la postura del corpo. “Una signora, una delle ultime a essere dimesse ci ha chiesto i nostri nomi per vedere su Facebook come eravamo fatte. Quando ha visto le nostre foto si è commossa, ha detto che eravamo belle. Quel ‘belle’ per me è stato un’emozione indescrivibile, fino a quel momento non avevamo un volto, mi ha restituito parte della mia identità”.

Durante il trattamento la logopedista Federica Splendiani, 32 anni, accarezza il viso di un’anziana in difficoltà nell’eseguire gli esercizi. Dopo aver passato tante settimane intubati in terapia intensiva per i pazienti covid, soprattutto se anziani, tornare a parlare richiede un grande sforzo di volontà. “Ho vinto la paura attraverso l’amore per il mio lavoro e il senso d’altruismo. È l’amore che mi ha spinta ad avvicinarmi ai pazienti non soltanto per aiutarli a parlare di nuovo, ma anche per colmare la loro preoccupazione e la tanta solitudine”.
La fisioterapista Eleonora Ricci, 25 anni, aiuta un’anziana a sedersi sul letto dopo averle fatto fare gli esercizi di mobilità alle gambe. Il contatto fisico che si stabilisce tra fisioterapisti e malati è il più intimo e sopperisce all’alienante disagio provocato dall’impossibilità dei pazienti di vedere i visi di coloro che li stano aiutando. “L’incontro con lo sguardo dei pazienti attraverso le protezioni è qualcosa di potentissimo, subito dopo ho sentito la necessità di accarezzare i loro visi e mettermi all’ascolto di chi era in grado di parlare. Sono piccoli gesti, lo so, ma sento che sono importanti per iniziare a dar loro una parvenza di normalità, per avviarli a una ripresa fisica e psicologica”.
Due dottoresse e un’infermiera visitano un paziente affetto da coronavirus. “Ci hanno detto che siamo degli eroi ma è un’etichetta che rifiutiamo in moltissimi. Per prima cosa perché curare le persone è il nostro dovere. È il lavoro che ci siamo scelti, amiamo farlo e lo facevamo con la stessa passione anche prima del covid. Seconda cosa, quella definizione contribuisce a deresponsabilizzare i cittadini in un momento in cui tutti noi dovremmo fare la nostra parte. E poi questa storia degli eroi è durata poco, già hanno preso a denunciarci come facevano prima”.
Ciascuna dottoressa indossa tre paia di guanti. A ogni visita igienizza quelli con i quali ha toccato il paziente per poi eseguire un ulteriore cambio. Sono operazioni apparentemente semplici ma che richiedono un dispendio di energia cognitiva che si somma a quella necessaria a fare le diagnosi. In tante sono seguite dagli psicoterapeuti. “Molte di noi hanno un sonno disturbato da risvegli improvvisi, già sappiamo che dopo l’emergenza dovremo fare i conti con lo stress post traumatico”.
In alcuni casi il coronavirus ha contagiato pazienti già affetti da malattie gravissime facendone precipitare la situazione e togliendo loro la possibilità di vedere i propri figli e nipoti.
La fisioterapista Valentina Raffaeli, 27 anni, muove delicatamente la mano di un paziente semicosciente ricoverato nel reparto di terapia intensiva. “All’inizio avevo un po’ di timore ad avvicinarmi al letto, ma dopo la prima carezza e uno sguardo rassicurante filtrato dagli occhiali protettivi il timore ha lasciato spazio al naturale desiderio di aiutare i malati. Per loro siamo state quelle sorelle, figlie e madri che non potevano vedere”.
Un’infermiera e una fisioterapista guidano le mani di Don Dante sulle impugnature del girello con cui muoverà i primi passi verso la guarigione. “All’inizio ero schiva, il timore di poter essere contagiata mi spingeva a mantenere le distanze. Col passare dei giorni però mi sono resa conto che tanti di questi pazienti si sentivano demotivati, apatici e che sarebbe stato mio dovere far sentir loro una voce amica. Così, a poco a poco, mi è venuto naturale parlarci dalla corta distanza, toccare le loro mani, accarezzare i loro visi. La cura normalmente passa anche attraverso questi piccoli gesti, ma per un paziente covid abituato a vedere solo infermieri e medici senza volto diventano ancora più significativi”.

La dottoressa Silvia Staffolani, 35 anni, inizia il giro delle visite nel reparto covid. Nonostante l’età avanzata di alcuni pazienti combinata ai sistemi di protezione renda difficile la comunicazione la dottoressa si avvicina ai malati alla ricerca del contatto visivo. “So che non dovrei avvicinarmi troppo per via del maggior rischio di contagio, ma è il solo modo per far sentire al paziente un minimo di calore umano. Per fortuna queste tute non nascondono gli occhi, non eliminano la voce, non possono impedire una carezza. Non possono ostacolare il rapporto tra esseri umani che stanno affrontando la stessa spaventosa sfida. Nei momenti peggiori pensare a questo mi aiuta”.

Una dottoressa si appresta a eseguire un tampone a un’infermiera risultata inaspettatamente positiva al test sierologico.
Un’infermiera della stessa struttura ospedaliera ricoverata nel reparto covid. “Ho iniziato ad accusare i primi sintomi due settimane dopo il picco dell’emergenza, prestavo servizio al Pronto Soccorso, lavoravamo al limite. Ora sono io ad aver bisogno di cure ma rifarei tutto ugualmente, ho fatto il mio dovere”.
La dottoressa Velentina Iencinella, 29 anni, continua il giro delle visite all’interno dei reparti grigi dove sono ricoverati i pazienti i cui sintomi segnalano un’alta probabilità che siano affetti da coronavirus. “So che le persone che ho curato non sapranno mai come sono fatta e com’è il mio viso, ma io i loro volti non li dimenticherò mai. Ricordo ancora un paziente la cui inflessione dialettale era per me un enigma, avrei potuto leggere la sua città di provenienza nella cartella clinica ma ho preferito aspettare che riuscisse a respirare e a parlare da solo. Ci sono voluti tempo e cure affinché riuscisse a rispondere alla mia domanda, solo a quel punto ho scoperto che anche lui, come me, veniva orgogliosamente dal mare”.
Un’infermiera medica le lesioni di un paziente covid. Dopo i lunghi giorni trascorsi intubati in terapia intensiva molti malati riportano delle grandi ferite sulla sommità del naso.
Un’infermiera sistema con premura il camice protettivo a una collega che sta eseguendo una medicazione a un paziente covid in terapia intensiva. “Prendersi cura l’una dell’altra è il nostro modo di fare squadra. È un po’ come dire: puoi fidarti di me. E nella nostra professione la fiducia reciproca è un requisito fondamentale, ancor di più in un momento di emergenza come questo”.
Due fisioterapiste cercano di restituire mobilità agli arti inferiori dei pazienti in terapia intensiva. Anche se i malati versano in uno stato di semi incoscienza entrambe le operatrici non rinunciano a parlare con loro esortandoli con convinzione a muovere le articolazioni.
Al termine del giro visite due dottoresse si apprestano a inserire all’interno del database le valutazioni dei pazienti e le terapie da approntare. Nei reparti covid gli uffici sono contaminati così anche questa pratica deve essere fatta in piena sicurezza.

Un infermiere si appresta a consegnare una valigia protetta dal cellophane con dentro gli indumenti puliti che indosserà un paziente guarito dal coronavirus in procinto di lasciare l’ospedale.
L’infermiera Michela Baioni, 37 anni, saluta un paziente covid guarito che finalmente sta per lasciare il reparto. L’uomo se ne andrà senza aver mai visto il volto di chi lo ha curato. “La cosa che mi manca di più è far vedere il mio viso e soprattutto il mio sorriso a questi pazienti. Per noi l’ascolto e il dialogo è un tempo di cura. Qui però tutto è reso più difficile dalle protezioni, così molte di noi, me compresa, si sentono ancora incomplete nell’assistenza. È come una piccola lacerazione con cui fare i conti. Ho pianto e abbracciato una signora che aveva appena perso il marito non pensando alla paura di contagiarmi. L’empatia vince su ogni virus e paura”.
L’infermiera stringe energicamente la mano di quello che nel gergo viene definito un paziente grigio i cui esami finali sembrano dare un esito negativo al covid. I pazienti grigi sono quelle persone che, sebbene al tampone risultino negativi, secondo la visita dello pneumologo hanno tutti i sintomi di chi ha contratto il virus.

Un’infermiera si appresta a igienizzare una stanza del reparto covid. Evitare contaminazioni è importante tanto quanto curare i pazienti. È il lavoro più pesante. “La difficoltà di respirare con le mascherine, la sudorazione copiosa provocata dalle tute di nylon unite all’impossibilità di poter bere è fisicamente debilitante”.
L’infermiera Rosa Ortenzio, 52 anni, a fine turno comincia la delicata operazione di svestizione. Il processo è ancora più complesso della vestizione perché i gesti sono concatenati meccanicamente gli uni agli altri per evitare ogni ipotesi di contaminazione all’esterno. “La prima cosa che penso in questo momento è che anche oggi sono arrivata in fondo nonostante la fatica di assistere i pazienti con addosso tutti i sistemi di protezione. Il secondo pensiero ovviamente va ai familiari che mi aspettano a casa perché l’ansia di poter diventare un vettore del virus e contagiare i miei cari è come un tarlo, persiste nel tempo. Ma è questa stessa paura a farmi rimanere concentrata nei movimenti di svestizione e quindi a ridurre al minimo questa terribile ipotesi”.

All’etichetta di eroi preferiscono il giuramento di Ippocrate che li esorta a prendersi cura delle persone anche attraverso l’ascolto e il dialogo. E se chiedi loro come hanno fatto a vincere la paura del coronavirus ti rispondono che nel profondo l’ansia c’è stata sempre, ma a prevalere è stato il desiderio di aiutare quei pazienti privati improvvisamente non soltanto della loro salute ma anche dei loro affetti. Sono i medici, gli infermieri e i terapeuti dell’Ospedale Torrette di Ancona che durante l’emergenza covid-19 si sono ritrovati a fronteggiare il virus nelle Marche, tra le cinque regioni più colpite su scala nazionale in rapporto alla popolazione. La partita contro il coronavirus si è giocata tanto sul piano medico quanto su quello umano e psicologico, perché la sfida per molti di loro è stata rimanere umani e stabilire un contatto empatico con i malati nonostante i necessari sistemi di protezione tendessero all’isolamento e all’atomizzazione del personale. Il reportage fotografico è un compendio di gesti, posture e testimonianze della sfera più intima e psicologica del personale sanitario.
Claudio Colotti