DA PAPA FRANCESCO
A ZEROCALCARE,
LE NARRAZIONI SULLA COVID-19

A cura di Fabio Ambrosino
e Rebecca De Fiore

Alla comunicazione istituzionale si è affiancata una comunicazione fatta di testimonianze e riflessioni. Non solo sui media tradizionali, ma anche tramite social network e cartoon.

“Ho capito che ero grave quando mi sono ritrovata in una stanza di ospedale, circondata da monitor, con altri cinque uomini intorno a me che si lamentavano e urlavano, e il personale medico vestito da astronauta”. In quello che lei chiama “l’inferno” è stata ricoverata per quindici giorni: “Intorno a me le persone si lamentavano, urlavano, non sopportavano il ventilatore e se lo strappavano, c’era chi aveva perso la testa e diventava aggressivo per il dolore, io sono rimasta sempre lucida. Vicino al mio letto uno dei primi giorni è morto un uomo. Piangevo in silenzio sotto il ventilatore, i dolori erano molto forti e per resistere ho pregato e ho fatto meditazione”, racconta. È la storia di Rosanna Padrini, un’architetta di 67 anni che vive a Salò, in provincia di Brescia, uno dei luoghi più colpiti dalla covid-19. Ha avvertito i primi sintomi della malattia il 7 marzo, ma la situazione è precipitata la settimana successiva.
A raccontarci la sua storia è Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, che durante la pandemia ha realizzato diverse inchieste sul campo per documentare la situazione. Alla comunicazione istituzionale, basata soprattutto sui numeri e sulle misure di prevenzione, in questo lungo periodo di emergenza si è infatti affiancata una comunicazione fatta di testimonianze, di storie di operatori sanitari e pazienti, uniti dalla sorte di essere testimoni di quell’“inferno” di cui parla Rosanna. Sono stati realizzati reportage fotografici nelle corsie di ospedale, girate inchieste nelle terapie intensive, che ci hanno permesso di farci un’idea dalle nostre case di ciò che stava succedendo “fuori”.
Pensiamo all’immagine di Papa Francesco, quasi solo in una piazza San Pietro bagnata dalla pioggia la sera del 27 marzo: un’occasione straordinaria di preghiera nel giorno del venerdì santo, che sovverte qualsiasi tradizione e cerimoniale. È il simbolo della “rarefazione del sacro” ha scritto Ezio Mauro. La scelta del Papa è stata giudicata uno dei momenti chiave della comunicazione nel tempo della pandemia, un momento che ha raccolto davanti alla televisione circa 11 milioni di persone collegate ai canali Rai, Sky e Tv2000. “Quell’immagine di Francesco, in una Roma ridotta all’essenziale – leggiamo in un articolo uscito sul New Yorker – rispecchia il modo in cui ha parlato dal momento dalla sua elezione, nel marzo del 2013.

INK #1 | La comunicazione nell‘emergenza covid-19 Da Papa Francesco a Zerocalcare, le narrazioni sulla covid-19

Il suo pontificato, iniziato e proseguito in coincidenza con un’ondata di autoritarismo in tutto il mondo, è stato l’esempio di un approccio non convenzionale al potere: il Papa come figura opposta a quella dell’uomo forte, a imitazione dell’umile e pacifico San Francesco d’Assisi (del quale ha preso il nome quando fu eletto Papa) e dei sacerdoti preoccupati per la situazione sociale dell’America Latina, che non manca di sollecitare il lavoro comune e la riconciliazione in un mondo dove si pensa sempre più che la potenza coincida col diritto”. Nella piazza deserta, c’era un uomo smarrito e sgomento di fronte a una crisi umanitaria e sanitaria di portata inedita per i Paesi avanzati. Tanto più, ricorda sempre il New Yorker, che in un’intervista al direttore de La Civiltà Cattolica, Papa Bergoglio aveva detto che “la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di guarire le ferite e riscaldare il cuore dei fedeli; ha bisogno di vicinanza, prossimità”.
La tensione tra distanza e prossimità, tra virtuale e reale, ha continuato a segnare la comunicazione del Papa anche nelle settimane seguenti. L’appuntamento online della trasmissione della messa del mattino a Santa Marta è diventato un momento di preghiera privilegiato per milioni di persone, fino a quando è stato annullato il divieto per i fedeli di partecipare a funzioni religiose. A quel punto, per scongiurare la “virtualizzazione” della Chiesa, il Vaticano ha interrotto la trasmissione invitando a “tornare alla familiarità comunitaria con il Signore, all’Eucaristia”. Il ritorno alla consuetudine dell’eucarestia non dovrebbe però essere interpretato come desiderio di recupero di una normalità che, al contrario, la pandemia potrebbe aver messo in discussione. In un’intervista a Wired, proprio il direttore de La Civiltà Cattolica Antonio Spadaro parla di cambiamento dell’orizzonte delle abitudini e delle sorprese e solo un atteggiamento improntato all’inventiva e alla creatività potrebbe sollevare almeno in parte l’inquietudine che in tutti, laici e credenti, è stata suscitata dai primi mesi dell’anno 2020.
Uno dei significati impliciti della comunicazione di Papa Francesco potrebbe essere proprio l’avvertimento che tutto può essere messo in discussione ad eccezione del valore essenziale dell’amore per l’altro: “siamo tutti sulla stessa barca”, ha detto Francesco la sera del venerdì santo, richiamando uno dei simboli intorno al quale si è andata determinando negli anni passati la lacerazione sociale e politica non solo nel nostro Paese. Mostrarsi solo sotto la pioggia battente la sera del venerdì santo è del tutto in linea con il disegno della comunicazione del Papa Francesco che, nella giornata mondiale della comunicazione sociale – il 24 gennaio 2020 – diceva: “Spesso sui telai della comunicazione, anziché racconti costruttivi, che sono un collante dei legami sociali e del tessuto culturale, si producono storie distruttive e provocatorie, che logorano e spezzano i fili fragili della convivenza. Mettendo insieme informazioni non verificate, ripetendo discorsi banali e falsamente persuasivi, colpendo con proclami di odio, non si tesse la storia umana, ma si spoglia l’uomo di dignità”. E proseguiva con un’affermazione che meglio di qualunque altra può spiegare il senso della sua presenza quella sera in quella piazza: “In ogni grande racconto entra in gioco il nostro racconto”.
Poco più di una settimana dopo – è domenica 5 aprile – è la Regina Elisabetta a parlare ai cittadini del Regno Unito in “un momento di turbamento nella vita del nostro paese: un turbamento che ha causato dolore ad alcuni, difficoltà finanziarie a molti ed enormi cambiamenti alla vita quotidiana di tutti noi”. Nei 68 anni di regno, è solo la quarta volta che la Regina parla ai propri sudditi e ancora una volta l’invito è quello ad avere coraggio.

Se l’apparizione di Bergoglio sovverte la tradizione, quella di Elisabetta è all’insegna della assoluta continuità. Quattro minuti di discorso perfettamente costruito dagli speechwriter di Buckingham Palace e negoziato con il capo del governo. Cinquecento parole che elogiano gli operatori del servizio sanitario e si concludono con una frase ad effetto ripresa da una canzone popolare tra i soldati inglesi durante la seconda guerra mondiale: “We will meet again”. Ci ritroveremo di nuovo. “La democrazia è cambiata”, ha scritto Richard Horton. “Il potere dei parlamenti è stato limitato. I politici hanno spesso usato un linguaggio accomunabile alla guerra («Siamo in guerra contro un assassino invisibile») esortando a unire le forze, evocando il nostro spirito di Dunkerque e sollecitando a combattere il virus”.
È un discorso, quello della Regina, talmente perfetto che viene pubblicamente elogiato anche dai media francesi, notoriamente avari di elogi nei confronti dei governanti delle nazioni vicine: “È una compostezza manifesta e maestosa (quella buona compostezza che non poteva mentire), una flemma che non è solo britannica, non semplicemente monarchica, ma che appartiene propriamente a questa Regina il cui carattere e destino sono stati forgiati dalla guerra, dai blitz, dalle bombe, dalla lotta per la libertà”. Nessun uomo politico è riuscito, secondo numerosi osservatori, a avvicinare l’obiettivo raggiunto dalla Regina nei pochi minuti nei quali ha parlato a 24 milioni di persone vestita di verde speranza: dimostrare che non solo la monarchia può essere compatibile con l’ordinamento democratico, ma che addirittura può rappresentare un ponte più efficace tra lo Stato e i cittadini. Nel suo discorso, la Regina ricorda che nel 1940 “abbiamo parlato da qui a Windsor come bambine ai bambini che erano stati evacuati dalle loro case e allontanati per la loro sicurezza. Oggi, ancora una volta, molti sentiranno un doloroso senso di separazione dai loro cari. Ma ora, come allora, sappiamo, nel profondo, che è la cosa giusta da fare”.
“Le metafore della guerra hanno una grande implicazione emotiva” sottolinea Horton. “Sono fortemente assimilate dal pubblico e trasmettono un senso di minaccia, urgenza e pericolosità. Suggeriscono una lotta contro un nemico malvagio e la posta in gioco è alta. Dovranno essere fatti sacrifici. Ma queste metafore possono anche essere pericolose. Possono creare un’atmosfera che scoraggi dissensi e critiche verso la politica governativa, addirittura etichettandoli come una specie di tradimento. Si concentra l’attenzione sul trattamento, non sulla prevenzione. Modificare la strategia per affrontare una malattia nel bel mezzo della guerra potrebbe peggiorare lo stato mentale collettivo di coloro che si trovano in prima linea. E l’idea di una guerra implica anche una vittoria o una sconfitta; nessuna delle due attualmente prevedibili con questo virus”.

“Le metafore della guerra hanno una grande implicazione emotiva. Sono fortemente assimilate dal pubblico e trasmettono un senso di minaccia, urgenza e pericolosità. Suggeriscono una lotta contro un nemico malvagio e la posta in gioco è alta. Dovranno essere fatti sacrifici. Ma queste metafore possono anche essere pericolose. Possono creare un’atmosfera che scoraggi dissensi e critiche verso la politica governativa”Richard Horton

PARLARE AI BAMBINI:, SERVE LA SENSIBILITÀ DI UNA DONNA?

In questa occasione e non diversamente dalla quasi totalità dei governanti, la Regina parla solo agli adulti. Ai bambini, durante la pandemia, hanno pensato in pochi come dimostrato anche da particolari non trascurabili quali il divieto di acquistare articoli di cartoleria nella grande distribuzione, per lunghissime settimane in cui sono rimasti aperti solo i supermercati. Qualcosa di diverso è successo in Nuova Zelanda, dove la prima ministra Jacinda Aldern ha postato sui propri profili Facebook e Instagram il disegno di un uovo di Pasqua invitando i bambini a scaricare l’immagine, a stamparla e a colorarla. In una conferenza stampa ha rassicurato i bambini neozelandesi garantendo che il coniglietto che secondo la tradizione porta le uova di Pasqua e la fatina che lascia le monetine in cambio dei dentini da latte erano considerati dal governo due “lavoratori essenziali” e pertanto avrebbero potuto continuare a fare il loro dovere anche durante il lockdown: “Forse potrebbero avere qualche difficoltà a muoversi per il paese, ma questi servizi essenziali saranno comunque assicurati da qualcuno”. Un’altra comunicazione con i bambini è dunque possibile ma forse è necessario che sia affidata alla sensibilità di una donna. Emma Solberg, premier norvegese, e Mette Frederiksen, sua collega danese, hanno tenuto due conferenze stampa dirette proprio ai bambini dei loro Paesi. Nel primo incontro tenuto da Solberg il 16 marzo, insieme al ministro dei bambini e delle famiglie e a quello dell’educazione e dell’integrazione, le domande degli adulti non erano ammesse: “Lo so che sono state cancellate tante vostre feste di compleanno, è un vero peccato. So anche che è molto noioso stare a casa per tanto tempo ed è noioso non poter incontrare gli amici. Ma è l’unico modo per non contagiare altre persone e per non ammalarsi noi stessi”.
La direzione è quella indicata da Paolo Rumiz nel suo diario della quarantena. “Giorgio, un amico pediatra, mi illumina un angolo visuale importante: «Per un nonno o una nonna che se ne va, ci sono uno o più nipoti che restano senza. Ma l’hanno saputo? E come? Così la morte è spesso tenuta nascosta ai bambini. Si pensa: È troppo piccolo, non vorrei che soffrisse, non so cosa dire, aspettiamo. È comprensibile, ma anche sbagliato. Ai bambini bisogna parlare. Se non fanno domande a noi, se le fanno da soli. Spesso si attribuiscono la responsabilità di quanto è accaduto. Coltivano pesi, e ne manifestano i segni. La conclusione è che della morte e della sua celebrazione abbiamo bisogno, noi come loro. Noi grandi come i piccoli. La sua presenza è necessaria alla vita, per darle forma, senso, direzione»”.

“Ai bambini bisogna parlare. Se non fanno domande a noi, se le fanno da soli. Spesso si attribuiscono la responsabilità di quanto è accaduto. Coltivano pesi, e ne manifestano i segni. La conclusione è che della morte e della sua celebrazione abbiamo bisogno, noi come loro”. Paolo Rumiz

RACCONTARE PER IMMAGINI

Sono già a decine i libri pubblicati da scienziati, sociologi, comunicatori che hanno al centro la covid-19 e probabilmente ne continueranno a uscire nei prossimi mesi. Alcuni di loro si sono sentiti più coinvolti di altri in questa emergenza. Milo Manara, ad esempio, fumettista veneto con una nipote che lavora come infermiera, ha sentito l’esigenza di ringraziare già dal 15 marzo gli operatori sanitari in prima linea. Ha dipinto un’infermiera che fissava una gigantesca molecola covid-19, chiamandola “Sei contro di me, ora!”. Lo ha pubblicato sulle sue pagine ufficiali di Instagram e Facebook accompagnato semplicemente da un “grazie”. Da allora ha rivolto la sua energia artistica in un progetto volto a rendere omaggio agli eroi di questo periodo, i lavoratori essenziali che hanno messo a repentaglio la loro salute per garantire il funzionamento dell’Italia. Non solo medici e infermieri, ma anche cucitrici di mascherine e trasportatori, solo per citarne alcuni. “Li ho messi su carta per non dimenticarli. Ho sentito che era il momento di celebrare virtù come il coraggio e l’altruismo. Volevo in qualche modo ripagare il mio debito”, ha rivelato al Washington Post. Anche Zerocalcare, fumettista romano, nella seconda fase dell’emergenza ha iniziato a raccontare tramite dei cartoon la quarantena vissuta a Rebibbia, quartiere di Roma. Dalle file nei parcheggi dei supermercati agli scaffali vuoti, dove rimanevano solo i ceci, fino ai tentativi di andare a correre negli isolati vicino casa, schivando le poche persone in strada. Piccoli reportage umoristici che molti, rispecchiandosi in quella narrazione, aspettavano ogni venerdì sera.

SOCIAL MEDIA: UNO STRUMENTO PER AVVICINARSI AI GIOVANI?

Sia Milo Manara sia Zerocalcare hanno scelto, almeno inizialmente, di veicolare i propri messaggi tramite l’utilizzo dei social media. Una delle modalità potenzialmente più efficaci per garantire un’adeguata comunicazione del rischio di facile comprensione, infatti, passa attraverso l’uso giudizioso e informato dei social media. Recenti studi hanno esaminato l’efficacia e le implicazioni dell’uso dei social media e di altri media digitali nella promozione della salute e di prevenzione delle malattie, ma le prove sono contrastanti e, in alcuni casi, tutt’altro che convincenti riguardo l’efficacia dell’impatto sulla salute pubblica. C’è accordo, però, sulla necessità di sfruttare la natura partecipativa dei social media per sfruttare caratteristiche e funzionalità uniche per coinvolgere la popolazione (o quantomeno un’ampia porzione di essa) in un dialogo bidirezionale sulla salute; un approccio che coincide con il cosiddetto engagement del cittadino. Alcuni ricercatori dei Centers for disease control and prevention degli Stati Uniti, ad esempio, sostengono che l’utilizzo dei social media per la messaggistica sulla salute pubblica può essere molto utile per raggiungere un pubblico diversificato, stabilire un coinvolgimento interattivo e continuo della comunità, facilitare l’emancipazione e aumentare la disseminazione di comunicazioni urgenti sulla salute pubblica.

Oggi se pensiamo a una comunicazione istituzionale fatta sui social media pensiamo soprattutto a Twitter, Facebook o Linkedin, e in un secondo momento a qualcuno potrebbe venire in mente anche Instagram. Ma durante le emergenze sanitarie gli occhi della maggioranza del pubblico si rivolgono alle autorità sanitarie. Tutti cercano risposte, tutti vogliono essere al sicuro. Compresi i giovani. Dunque, quali sono le migliori piattaforme per connettersi con la generazione Z nel 2020? Snapchat, YouTube o TikTok, a seconda del Paese in cui ti trovi. Il 28 febbraio, a emergenza in atto, l’Organizzazione della sanità ha scelto di aprire un canale TikTok, seguita da diversi Ministeri della salute. “Questo ha chiaramente avuto un effetto. È una buona notizia per la salute pubblica”, commenta Dante Licona, senior social media officer della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. L’Istituto messicano per la sicurezza sociale, unendosi a TikTok già nel novembre del 2019, è stato uno dei primi ad adottarlo nel settore sanitario. Il loro primo video relativo al coronavirus è stato pubblicato il 28 febbraio e da quel momento nel corso della pandemia hanno accumulato milioni di visualizzazioni. Anche il Ministero della salute tailandese è stato inarrestabile: da quando si sono iscritti alla piattaforma il 4 marzo, hanno pubblicato fino a 5 video al giorno. Ancora, il Ministero della salute argentino ha scelto TikTok per porre una chiara enfasi sulla lotta alla disinformazione, invitando anche la ministra della salute ha rispondere a una serie di domande direttamente sulla piattaforma. Il risultato? Quasi 40 video e 53.000 follower in meno di un mese.

IL RISCHIO DI UN’INFODEMIA

Il termine infodemia viene utilizzato dall’Oms per indicare quell’”abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno”. Per riuscire a evitarlo, occorre che i governi e le istituzioni abbiano una strategia efficace che permetta di comunicare ai cittadini in modo chiaro, trasparente e veloce.
Le parole di una lingua non sono tutte uguali e non sono accessibili allo stesso modo. Può capitare a tutti, soprattutto durante la lettura, di imbattersi in una parola di cui si ignora il significato, che rappresenta un ostacolo alla comprensione di un testo. Tullio De Mauro, famoso linguista italiano, ha mostrato come circa il 96% dei discorsi quotidiani degli italiani sia occupato da poco meno di 7.000 parole. Le altre 193.000 parole che fanno parte della lingua italiana occupano appena il 4% della nostra attività comunicativa. Insomma, anche se ne conosciamo altre, usiamo quasi sempre poche migliaia di parole. Continua a spiegare De Mauro che le 7.000 parole più ricorrenti rappresentano il vocabolario di base della nostra lingua, quella porzione del lessico comprensibile quasi a tutti i cittadini. Le altre parole, invece, hanno gradi di comprensibilità e accessibilità in media molto più ridotti, sono spesso parole di nicchia legate in modo esclusivo a particolari argomenti o a situazioni molto formali.

Nel giro di tre giorni, tra l’8 e l’11 marzo, sono stati emanati tre dpcm. Dai risultati di un laboratorio organizzato nell’ambito dell’insegnamento di sociolinguistica dei corsi di laurea in Lettere e scienze della comunicazione dell’Università di Bologna, poi pubblicati su Micromega, emerge che l’indice di leggibilità media dei tre decreti è molto basso, attorno al 38%, simile al livello di accessibilità dei comunicati presenti sul sito del Ministero della salute e dell’Istituto superiore di sanità. La scarsa leggibilità, spiegano, dipende dall’utilizzo di termini come assembramento o dispnea e da costrutti sintattici complessi come l’uso ripetuto della forma passiva. Questo significa che i testi redatti da figure istituzionali durante la pandemia sono quasi pienamente accessibili a chi ha la laurea e sono pressoché illeggibili per chi ha un titolo di studio diverso o inferiore. Dunque, se consideriamo che solo il 18% degli italiani tra i 25 e i 64 anni è laureato, si comprende perfettamente la assai limitata efficacia comunicativa di questi interventi istituzionali. Sicuramente, inoltre, esiste un legame di causalità diretta tra la scarsa leggibilità della comunicazione istituzionale e il rischio di infodemia, che colpisce proprio chi fatica ad accedere ai canali ufficiali di comunicazione, che sono lo strumento per verificare la veridicità delle notizie. Su questa scia si pone il sito istituzionale della Federazione nazionale dell’ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) “Dottore ma è vero che”, che ha proprio l’obiettivo di offrire a tutta la popolazione un’informazione accessibile, scientificamente solida e sempre trasparente. In questo periodo di emergenza hanno prodotto nuovi contenuti esclusivamente dedicati al nuovo coronavirus, rispondendo ai dubbi più comuni: dalle mascherine ai trattamenti farmacologici.
La diffusione molto rapida delle notizie, sommata alla grande quantità di contenuti, rende, infatti, molto più complessa la gestione dell’emergenza, in quanto pregiudica la possibilità di trasmettere istruzioni chiare e univoche e di ottenere comportamenti omogenei da parte della popolazione. Forse, quindi, ha ragione Zerocalcare, che quando gli è stato chiesto come mai non scrivesse nulla sul coronavirus, ha risposto “Se uno non c’ha un c***o da dire, esiste il silenzio”.

“Nessuno è davvero all’altezza di un compito assolutamente nuovo” ha scritto Paolo Giordano. La valutazione della comunicazione nella pandemia potrebbe concludersi con un’assoluzione motivata dall’eccezionalità dell’evento, ma perderemmo un’occasione preziosa per riflettere.

Se l’obiettivo di un servizio sanitario dev’essere individuato nella costante capacità di lettura dei bisogni di salute della comunità, la comunicazione in tempo di crisi avrebbe dovuto mettere in campo un’intelligenza dei problemi che prima anticipasse e poi interpretasse i bisogni informativi dialogando costruttivamente con i cittadini e con i media che contribuiscono a informarli.
L’Oms ha precocemente segnalato il rischio di un’epidemia di informazione: la molteplicità dei punti di vista, il moltiplicarsi dei risultati di sperimentazioni pubblicate su riviste indicizzate o anticipate su comunicati stampa o su archivi di pre-pubblicazione, addirittura alcune successive smentite e studi ritirati hanno contribuito a disorientare non solo i cittadini ma anche i professionisti sanitari. È probabile che anche la politica sia stata colta di sorpresa da una litigiosità e mancanza di coesione che è purtroppo da tempo la normalità per la comunità scientifica. Eppure, la crisi potrebbe rivelarsi un’opportunità se – anche tardivamente – riuscisse a rendere manifesta non solo l’esistenza ma anche l’utilità di un confronto aperto interno alla comunità scientifica e tra questa e la politica, l’economia, la bioetica. “E se toccasse proprio a ciascuno di noi, al nostro senso di responsabilità, costruire una qualche bussola nel mare delle verità?” si chiede Pier Aldo Rovatti. “A noi, qua in basso, servirebbero piccole verità, per riuscire a individuare a chi e a cosa dar retta (…). Le piccole verità, di cui dovremmo nutrirci, non disprezzano il sapere o la competenza ma ci servono per limitare il potere che vorrebbero esercitare su di noi, quello di governare le nostre vite”.
La comunicazione istituzionale durante la pandemia è purtroppo prevalentemente unidirezionale e condizionata da un sostanziale bias di genere. Un aspetto positivo è la trasparenza che la sta caratterizzando. Però la trasparenza è un metodo, non può essere un fine. Avere la possibilità di seguire in modo puntuale il lavoro svolto dalle istituzioni permette sicuramente di riconoscere le competenze. Ma anche di individuare le debolezze a livello centrale o locale, nella capacità di prevedere, pianificare, affrontare l’emergenza. E di comunicare attraverso il dialogo e l’ascolto.  

Questa pubblicazione e la sua diffusione è stata possibile anche grazie al contributo di

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